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Pippo Ciorra - Senza architettura

Here you can read online Pippo Ciorra - Senza architettura full text of the book (entire story) in english for free. Download pdf and epub, get meaning, cover and reviews about this ebook. year: 2011, publisher: Editori Laterza, genre: Detective and thriller. Description of the work, (preface) as well as reviews are available. Best literature library LitArk.com created for fans of good reading and offers a wide selection of genres:

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Pippo Ciorra Senza architettura

Senza architettura: summary, description and annotation

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Avessi un giardino...

Lidea di questo libro comincia a nascere nellinverno del 2002, nello spazio smisurato della basilica palladiana di Vicenza, durante linaugurazione di una mostra dedicata al lavoro di Steven Holl, architetto americano discretamente posizionato nella classifica delle archistar. La mostra era piena di disegni, bellissimi modelli, fotografie di edifici dalle forme audaci e sorprendenti che non siamo abituati a vedere nelle nostre citt, e il vernissage aveva come al solito attratto una moltitudine di addetti ai lavori. Linterno della basilica, come tutti sanno, uno spazio vuoto e imponente, alto quasi 20 metri, e se da un lato tende ad annichilire materiali espositivi che in genere riescono timidamente a scalfirne un primo insignificante strato di un paio di metri, dallaltro offre infinite possibilit a chi voglia azzardare allestimenti pi coraggiosi e spettacolari. Holl, in quel caso, aveva scelto di nobilitare un progetto espositivo tutto sommato abbastanza understated con un pezzo forte: un intero piccolo edificio sperimentale in acciaio ricostruito al vero nel cuore dello spazio palladiano.

A un certo punto della giornata, non ricordo pi se eravamo ancora alla mostra o nellimmancabile ricevimento in villa palladiana, Flavio Albanese, progettista vicentino e futuro direttore di Domus, e tra quelli che pi si erano dati da fare per rendere possibile la mostra di Steven Holl, annunciava con orgoglio che uno degli autorevoli sponsor dellevento aveva intenzione di comprarsi ledificio sperimentale esposto alla basilica e di piazzarlo manco fosse una scultura di Pomodoro nel bel mezzo del giardino della sua industria.

Sembrava una bella notizia, almeno per Steven Holl, un lodevole esempio di mecenatismo. A me per fece unimpressione strana, come se ci fosse qualcosa che non andava, e immediatamente stimol, come spesso mi succede, unassociazione di idee un po irriguardosa. Limmagine del piccolo prototipo di architettura poggiato con garbo sullerba dello stabilimento del Nordest mi richiamava infatti alla mente una battuta folgorante e politicamente scorretta di Groucho Marx pubblicata anni fa da Gino e Michele: avessi un giardino la terrei una fidanzata.... Avessi un giardino la terrei unarchitettura moderna, deve aver pensato quellindustriale illuminato, magari mentre era al telefono col suo geometra di fiducia per commissionargli lennesimo capannone in prefabbricato bucciardato.

Gino e Michele, o meglio Groucho Marx, mi sono tornati inevitabilmente alla mente qualche tempo dopo, mentre ero impegnato nellimpopolare quanto inutile impresa di cercare di convincere i bolognesi che un altro piccolo edificio moderno potesse starsene tranquillo per un paio di anni in piazza Re Enzo, cuore della Bologna storica, senza macchiare per sempre lanima della citt. Ovviamente non ebbi alcun successo, tranne trascinare nellazzardo un piccolo gruppo di cittadini coraggiosi, e il primo atto della nuova giunta Cofferati fu proprio quello di rimuovere velocemente le Gocce realizzate da Mario Cucinella. Cofferati e i suoi assessori, naturalmente, dichiaravano di non essere affatto contrari per principio allarchitettura contemporanea, anzi. Diciamo che coglievano un sentimento diffuso in citt e lo trasformavano in atto amministrativo. Ma siccome non erano non sono passatisti, proponevano di non distruggere le Gocce ma di spostarle in un qualche giardino della citt, riciclandole in chiosco per i fiori (al cimitero), per i gelati o non so cosaltro. Ci risiamo, pensai, ecco di nuovo qualcuno che vuole prendere larchitettura contemporanea e mettersela in giardino, come alternativa a Biancaneve e ai nanerottoli. Sicch, quando qualche tempo dopo raccogliemmo la discussione sviluppata in quel periodo su Bologna in un numero monografico di una rivista, mi sembr inevitabile usare come titolo del mio pezzo la citazione di Groucho Marx.

Le riflessioni che svolgevamo insieme agli altri autori del fascicolo erano in quelloccasione rivolte a Bologna, ma in realt il capoluogo emiliano poteva benissimo essere considerato un campione significativo dellopinione pubblica nazionale, che ancora si avvicina agli edifici schiettamente moderni come si avvicinerebbe a un piccolo veicolo appena atterrato da Marte, spinta da irrefrenabile curiosit, ma allo stesso tempo sicura che dentro quel coso ci sia qualcosa di dannoso. Bologna, dicevamo, unottima parte per il tutto, termometro efficiente della temperatura nazionale, ma anche un caso dove la contraddizione particolarmente stridente: la culla del miglior progressismo, dove il livello economico e di cultura, il tasso di innovazione e di integrazione tra classe dirigente pubblica e privata, il tessuto di intellettuali e quantaltro avrebbero dovuto rendere fluido e indolore il rapporto tra innovazione ed evoluzione del gusto anche nel campo dellarchitettura e della sensibilit urbana.

Si pu dire, quindi, che limmagine del padiglione di Steven Holl al posto della fontana ornamentale, la vicenda delle Gocce di Bologna, limprudente sortita del sindaco di Roma Alemanno, che inaugura il suo mandato promettendo la demolizione del museo dellAra Pacis di Richard Meier, cos come leco delle mille altre discussioni defatiganti su questo o quellintervento controverso, sembrano stare l per ricordarci il rapporto complesso e contraddittorio che gli italiani intrattengono con quella che una volta si chiamava modernit, e che oggi possiamo forse definire come il modo in cui i linguaggi e le tecniche riflettono (o sfidano) il loro tempo. Adorata nellindustrial design e nella moda, data per scontata nella tecnologia e nei media, la voglia di innovazione incontra sempre forti resistenze nel nostro paese quando si tratta dei settori creativi pi tradizionali: visual arts , letteratura, cinema, e architettura contemporanea. Soprattutto se per contemporanea si intende unarchitettura fortemente intrisa dello spirito, della tecnologia, delle disarmonie, dei conflitti e delle incertezze che caratterizzano il nostro tempo.

Il problema, direbbero alcuni, che la nostra architettura ancora immersa in una crisi cominciata negli anni settanta col fallimento dei grandi quartieri pubblici e aggravata da Tangentopoli. Non so, forse, per, cominciano ad essere episodi abbastanza lontani nel tempo. C da dire che nellItalia architettonica della seconda met del Novecento ci siamo crogiolati spesso nellidea della crisi, come se praticare una disciplina accertandone continuamente lo stato di crisi mettesse in qualche modo al sicuro la buona fede dei progettisti. Si parlava di crisi ideologica negli anni del dopoguerra, mentre maestri bravi e meno bravi riempivano con energia e intelligenza il paese dei milioni di nuovi vani promossi dalla legge Fanfani. Era ancora crisi del moderno, per Rogers, Quaroni e altri guru, quindici anni pi tardi, mentre si realizzavano decine di piccoli capolavori magari non monumenti, ma palazzine, quartieri, colonie estive, fabbriche in giro per le citt italiane. Ed ancora ci si accaniva sulla crisi e sulla necessaria astinenza dei nostri progettisti ai tempi di Aldo Rossi, quando comunque il mondo riconosceva senza fatica legemonia del pensiero architettonico allitaliana su scala globale.

Si potrebbe quindi pensare che quello di oggi un ennesimo inutile grido di al lupo non giustificato dalla realt, frutto di pura culture of complaint da noi pi conosciuta come chiagni e fotti magari alimentata da chi ha paura di perdere posizioni dominanti o di privilegio.

Oggi, per, alcuni elementi di novit ci sono, e sono tali da rendere particolarmente stridenti le contraddizioni del nostro mondo, dove lassessore del pi piccolo comune si aspetta di vedere Norman Foster o Calatrava partecipare agguerrito al concorso per la ristrutturazione dellasilo municipale, ma dove allo stesso tempo c sempre chi propone di smontare e deportare nella periferia brutta ancora il caso dellAra Pacis di Richard Meier, a ovvia cura di Sgarbi le grandi opere appena completate, con congruo dispendio di energie, denari, intelligenze creative e amministrative.

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